Crea una certa emozione trovarsi qui riuniti nel giorno della festa nazionale della liberazione, nell’anno di chiusura del l’anniversario della prima guerra mondiale e in uno dei tanti campi di battaglia dove si è consumata una inutile strage…
Crea una certa emozione essere qui per ricordare e conseguentemente per non dimenticare.
Penso a quante celebrazioni civili e culturali si sono date in questi anni di anniversario; accompagnate, pure, da rievocazioni storiche, dal restauro di trincee, di musei e quant’altro ne appartenga.
Due anni fa, mosso da una personale curiosità storica, ho avuto modo di visitare il nuovo allestimento dedicato alla prima guerra mondiale al Museo di Storia Militare di Vienna. Sinceramente per quanto ci si sta adoperando per non perdere la memoria storica è molto interessante e utile ma, più volte, mi sono chiesto: che memoria stiamo vivendo? Fatta di bei discorsi, di ripristini monumentali, per intenderci, o c’è un qualcosa in più? Anche se siamo i figli, i nipoti o i pronipoti di chi ha sofferto, patito la fame, rischiato la vita, di chi ci ha lasciato le penne: che memoria portiamo dentro di noi di un conflitto bellico causato, dove anche i ben pensanti italiani di allora e non la povera gente, hanno giocato le loro carte nel provocarla?
Pongo questo interrogativo perché, sommariamente, sembra di assistere a un vuoto di senso; come se non avessimo ben capito la lezione ricevuta. Questo, perché: da una parte, perché l’ingordigia umana continua a mietere le sue vittime attraverso sempre nuovi conflitti bellici.Dall’altra, perché è in forte pericolo il senso di essere una “casa” sia come Nazione, sia come Europa, sia come singola realtà territoriale.
Che cos’è una casa? (Qui mi avvalgo del pensiero di David Grossman)
La casa è un luogo le cui mura, i suoi confini, sono ben chiari e accettati. La cui esistenza è stabile, solida, rilassata. Dove i suoi abitanti conoscono dei codici intimi di vita; le cui relazioni al suo interno e con il vicinato sono fraterne, risolte. La casa è il luogo anche dell’incontro, dell’amicizia sincera, del rispetto reciproco. Dove si proietta il senso del futuro.
Se penso ai racconti dei miei genitori le nostre famiglie, i nostri paesi, l’Italia stessa, si è sempre ripresa perché c’era un forte senso di casa non solo nelle famiglie ma anche nelle istituzioni. Ma se guardiamo ora, anche ai nostri piccoli centri rurali, che con il boom economico degli anni addietro hanno e continuano a conoscere uno sviluppo non indifferente, si può parlare ancora del senso di essere una casa? Il rischio è sempre quello: noi possiamo essere dei bei Paesi, dove in un certo senso si sta bene; possiamo essere, per così dire, anche una bella famiglia dove, pure, non ci manca il confort necessario, ma aver perso il carisma dell’essere una casa. Un luogo di accoglienza, di solidarietà, di comunione, di rispetto.
Si è una casa quando ci si adopera per la comunione. Non si è, invece, una casa quando prevale l’ingordigia del denaro, del possedere. Quando è presente la prepotenza di qualsiasi potere. Quando c’è lo sfruttamento del creato, delle persone, del lavoro. Quando si diventa, in un certo senso, complici di certe forme di strozzinaggio mettendo le famiglie in ginocchio. Quando non si educa più al rispetto altrui e al bene comune. Quando i nostri ambienti parrocchiali, istituzionali, scolastici, sanitari ……. diventano funzionali trascurando l’attenzione dell’altro. Dimenticando che ogni uno di noi è custode del proprio fratello senza grado di parentela.
Qualche giorno fa mi è capitato un piccolo episodio molto curioso. Una persona è venuta a trovarmi, perché desiderava mostrarmi un libretto delle preghiere appartenuto a suo nonno. Gli era stato consegnato dal ordinariato militare prima di andare al fronte nel 1915. Un libretto tenuto caro dalla famiglia, perché quelle pagine portano con se una storia, la paura di quei momenti. La sofferenza e, penso, i mille interrogativi sul senso del fronte. Ma ancora di più contengono la speranza di un uomo di fede, di tener salva la vita, di poter ritornare a casa dai suoi cari e continuare a realizzare il desiderio dell’essere una casa. Come, pure, non possiamo dimenticare le vicende delle nostre parrocchie costrette ad emigrare altrove e accolte da altre comunità cristiane, perché quel senso di essere una “casa” dato dalla fede era forte.
Così, penso, che la memoria alla quale siamo chiamati, anche in questo giorno di festa, a portare dentro il nostro vissuto debba essere una memoria di sofferenza, perché ogni forma di conflitto tra le persone, tra le nazioni è una inutile strage. Ma anche perché nella sofferenza l’uomo non dimentica la propria vocazione di amare il prossimo come se stesso.

QUALE MEMORIA? UNA RIFLESSIONE NELLA RICORRENZA DEL 25 APRILE E DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE